Gli sgravi per chi investe in pubblicità sono ovviamente la botte piena.

Il primo round per assicurarsi la possibilità di detrarre dal 75% (per tutte le aziende) al 90% (microimprese, startup e Pmi innovative) dell’intera cifra investita in pubblicità dalle tasse scadrà il prossimo 31 Dicembre.

Beneficiarie saranno tutte le aziende che avranno investito in campagne online, radio e tv almeno l’1% in più rispetto al 2016. Il provvedimento dovrebbe essere esteso anche al 2018.

Dal 2019, e qui arriviamo alla moglie sobria, dopo l’approvazione della commissione Bilancio del Senato, verrà invece introdotta la tanto agognata web tax con aliquota al 6% per i ricavi digitali.

A essere colpiti in prima battuta saranno i giganti del web Facebook, Google e Amazon che vedranno le loro transazioni pubblicitarie tassate con aliquota al 6%: nell’ipotesi del governo saranno direttamente gli istituti bancari a fare da sostituto d’imposta.

Quindi niente più accordi last minute come quello avvenuto con Google nel Settembre 2017, quando il colosso di Menlo Park ha versato 306 milioni di euro per chiudere il contenzioso con il governo per gli anni 2002-2015. Un piccolo miracolo, visto che l’Italia è stato l’unico Paese a riuscirci, ma cifra irrisoria se ricalcolata alla luce degli studi condotti da Nielsen e Politecnico di Milano che valutano il fatturato di Google Italia in 1 miliardo e 400 milioni di euro nel 2017, cifra ben lontana dai 65 milioni di fatturato dichiarati da Big G nel 2015.

Un simile discorso vale anche per gli altri giganti Facebook, e Amazon (che da semplice rivenditore di libri è diventato deposito bancario e rivenditore di adv). Ma attenzione, lente di ingrandimento accesa anche sui big del turismo, da Airbnb a Booking.com.

Se il bandolo della matassa con le multinazionali, decisa l’aliquota al 6%, starà nel trovare un sistema affidabile per calcolare gli incassi reali dei giganti del web, le altre aziende che operano online dovranno attendere i decreti attuativi previsti in aprile 2018.

Il grosso rischio è legato alla compravendita di beni materiali sul web. La tassa, che riguarda solo i servizi digitali, potrebbe invece andare a colpire anche produttori e consumatori finali se applicata alle transazioni fatte sui marketplace online, dove non esiste, allo stato attuale, un sistema in grado di distinguere se la vendita effettuata è quella di un prodotto o di un servizio.

Tanto più che la categoria servizi online non è ancora stata definita con precisione. Un esempio: la camera d’albergo viene considerata bene o servizio? La pubblicità di piccole, medie e grandi testate web, pur non gestita attraverso transazioni online, viene equiparata a quella dei giganti del web o no?

Sono tutte domande a cui si inizierà a lavorare sin da ora, anche se l’ultima parola, vista la data dei decreti attuativi, spetterà al prossimo Ministro dell’Economia.

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