Non era un pesce d’aprile. Quando Bugo ha annunciato che il 1° aprile sarebbe stato il suo ultimo concerto, molti hanno sorriso immaginando uno scherzo, un pronto dietrofront, un colpo di teatro in bilico tra ironia e verità. Ma poi l’Alcatraz di Milano si è acceso per un rito collettivo, una festa, un commiato che non voleva dirsi tale, un abbraccio dato di spalle a un amico mentre fugge da una stanza troppo affollata e soffocante. Cristian Bugatti, in arte Bugo, ha ripercorso oltre vent’anni di carriera a modo suo: senza retorica, senza lustrini, senza colonne di fumo o effetti speciali, che servono più per impressionare che per raccontare.
Nessun monologo, nessuna malinconia, nessuna gloria ostentata: sul palco dell’Alcatraz è salito solo un uomo, la sua musica, gli amici di sempre e una folla pronta ad abbracciarlo per l’ultima volta; con una scaletta costruita come un romanzo in tre capitoli, ognuno col suo tempo, il suo colore, la sua atmosfera; ma soprattutto con quella sincerità e coerenza da outsider che l’hanno tenuto ai margini dei circuiti più patinati, pur con delle incursioni eccellenti, come i due Sanremo da protagonista (protagonista volente e protagonista nolente). A prescindere dal palco, Bugo questo lungo percorso l’ha sempre attraversato a testa alta ma con l’anima in tasca, raccontando le sue verità con un linguaggio e uno stile che portavano il suo marchio sopra: dal lo-fi sgangherato degli inizi al rock urbano più dissonante, dai testi minimali e ironici al punk viscerale e disordinato. La sua forza è sempre stata quella semplicità così spiazzante da apparire surreale, grottesca, ma è stata anche l’autenticità e l’autorevolezza di chi non si è mai preso troppo sul serio pur considerando la musica qualcosa di molto serio. Ed è forse per questo che, a cinquant’anni, ha deciso di fermarsi.
«Non mollarci!», urla qualcuno dal pubblico durante il concerto. «Io mollo per non mollare, non l’avete ancora capito?» risponde veloce lui, con un sorriso storto che racconta una verità difficile, forse non detta fino in fondo neanche a se stesso. In un momento storico in cui le visualizzazioni contano di più delle visioni, in cui i trend affamano ogni canale, divorando tutto ciò che non si piega al loro passo, lo spazio di manovra si è fatto più limitato, il respiro concesso alla creatività si è fatto sempre più corto e il terreno su cui una volta si coltivavano germogli di libertà artistica e intuizioni virtuose oggi reclama raccolti rapidi, annaffiati d’urgenza su un suolo sempre più impoverito.
In uno scenario così, chi ha cantato la noia, la crisi, l’inquietudine – ma anche la quotidianità più vera e irruente, l’ironia delle osservazioni più banali che ti aprono scorci di verità universale – non trova più posto, soprattutto se, come canta lui, è sempre stato fuori dal “giro giusto”. E così Bugo decide di anticipare la sua morte artistica scegliendo personalmente il momento e selezionando gli amici di cui contornarsi in questo commiato, le modalità, i suoni e le parole.
Il primo capitolo del suo live si apre sghembo, crudo, senza compromessi. Sale sul palco senza cerimonie, con un’armonica tra le labbra e la voce scorticata, cercando l’accompagnamento del pubblico quando batte il tempo su uno dei suoi brani più amati: “Piede sulla merda”. Una scelta ruvida e nuda, ma che è anche una dichiarazione di intenti: tornare all’osso, spogliarsi di tutto, scrollarsi di dosso ciò che negli anni hanno provato a cucirgli sulla pelle.
Poi il palco si riempie di suono e di sguardi complici: Cristian Dondi alla batteria e Bruno Dorella al basso – compagni storici – lo accompagnano in un crescendo di suoni sporchi e imperfetti, da garage band dei primi anni Duemila. L’energia grezza esplode in “Il sintetizzatore”, “Questione d’eternità”, e “Uh!”, un brano dei Quaxo – primo gruppo di Bugo, dove suonava anche Dondi. Le prime file si animano, le luci esplodono, il caos avvolge l’Alcatraz come una scossa.

In “Rock’n’Roll” sale sul palco Aimone Romizi dei Fast Animals and Slow Kids, dando il cambio a Dondi alla batteria, mentre la surreale “Ggeell” vede l’ingresso di Fernando Nuti dei New Candys, che contribuisce a creare un sound tra l’onirico e l’ipnotico, con chitarre riverberate e distorsioni ben dosate.
Poi arriva il secondo capitolo. Le luci si abbassano, una sedia compare al centro della scena. Bugo rientra, si siede sul bordo del palco con la chitarra acustica sulle gambe, illuminato da una luce calda. Inizia a suonare “Comunque io voglio te” come in una confessione sussurrata, ma l’emozione lo blocca. Ferma le corde e abbassa la testa, poi dice ridendo ai fotografi che gli si erano assiepati sotto: «Io devo parlare con la gente, se ci siete voi davanti non ci riesco». Così chiede spazio, Bugo, non per sé, ma per quella connessione fragile e vera che da sempre lo lega al suo pubblico.
Lo stesso pubblico che canta con lui, che conosce ogni parola di “Che diritti ho su di te”, che lo sostiene anche quando la voce gli trema. Proprio lì sotto, suo padre lo guarda in silenzio: uno sguardo che dice molto dell’uomo, del figlio, dell’artista.
Tra una canzone e l’altra, Bugo si concede a battute improvvise, come a schermarsi da tutto quell’affetto. «Tanto questa non la sapete», dice prima di attaccare “Vorrei avere un Dio”, ma la folla lo smentisce cantando con trasporto. «Ah, allora la sapete?» ride lui, con gli occhi che brillano. «Bugo, noi ti seguiamo da sempre!» risponde qualcuno. Ed è forse questo il senso di tutto: quella fedeltà affettuosa, quel sentirsi parte di qualcosa, quella verità condivisa che è stata la benzina (o meglio, ‘benzina sua’ parafrasando una delle sue canzoni più amate dal pubblico della prima ora) di questi 20 anni di carriera, contro ondate di critiche e cinismo che hanno provato in più tranche a travolgerlo.
Quella stessa fedeltà affettuosa che prende forma in un flash mob silenzioso, quando centinaia di persone vestono maschere con il suo volto stilizzato, in una moltiplicazione di ‘Bughi’, in una distorsione surreale della realtà dove il pubblico diventa, per una sera, il suo riflesso mentre canta ‘Per fortuna che ci sono io, amico mio’, a raccontare che la sua musica li ha fatti sentire visti, accolti, capiti. E che in fondo, sì, per fortuna che c’era lui.

Il terzo capitolo si apre con un suono compatto, pieno, travolgente e Bugo ritrova la sua formazione con Marco Montanari alla chitarra e Stefano Doninelli alla batteria. Si canta la semplicità, con “Casalingo” o “Sabato mattina”, ma anche la rivalsa e l’urgenza di verità, con “E invece sì” e “Nel giro giusto”. E un senso di rivalsa si accende anche quando sale sul palco J-Ax, con il cappello da cowboy e un bel piglio punk, che, in una jam psichedelica e travolgente di “Pasta al burro”, raccomanda in una barra: “In un mondo di Morgan, io consiglio di essere Bugo!”. Il pubblico salta, il palco si popola di tutti gli artisti che hanno accompagnato Bugo in quest’ultimo viaggio e, sulle note di “Io mi rompo i coglioni”, il confine tra palco e platea si sgretola, con gente che sale, urla, salta, e Bugo che si arrampica sulla cassa della batteria, poi la suona a briglia sciolta, cavalcando l’esplosione disordinata della fine della festa, per poi sciogliersi in abbracci sudati con i musicisti, con i compagni di viaggio e con i suoi fan. In un finale senza etichette, senza ruoli, intonando l’inno di una generazione che si è sempre sentita fuori tempo, fuori posto, fuori ritmo e che era alla ricerca, forse, solo di questo: di coerenza e di verità, oltre ogni compromesso.