Che cosa sia la verità è argomento di discussione da secoli. Esiste davvero la vera verità? Già Protagora – filosofo presocratico del V secolo avanti Cristo – con il suo “uomo misura di tutte le cose” aveva intuito che la verità è relativa: è fatta di punti di vista, di opinioni, di convinzioni, di condizionamenti sociali… Difficile poter dire di “averla in tasca” davvero.

Di tutt’altro stampo, invece, è fatta la bugia: quella è oggettiva, misurabile, attribuibile a uno specifico autore, smascherabile. Se ben costruita può diventare difficile scoprirla, ma ciò che è fake è e resta fake, non ci piove. News comprese.

Il Social Media Marketing Day 2017, una fucina di spunti digitali

E proprio le fake news sono state uno dei temi al centro della quinta edizione del “Social Media Marketing Day Italia”, evento annuale dedicato ai trend del mondo social e digital, che si è tenuto a Milano il 14 giugno scorso.

Dei tanti interessanti spunti di riflessione – che hanno abbracciato tutto lo scibile digitale del momento, dal trend del LiveStreaming all’utilizzo dei social per associazioni, uffici stampa e relazioni pubbliche istituzionali, dal crisis management alla sicurezza dei dati – mi ha colpito, in particolare, l’intervento di Renato Vichi, Head of Media Relations Italia di UniCredit, che ha affrontato il tema dal punto di vista non soltanto giornalistico, ma anche aziendale (potendo rivestire, per diritto curriculare, tanto l’uno quanto l’altro ruolo).

Che cosa ha detto Vichi di così fondamentale per i brand nella sua mezz’ora di speech? In sintesi tre cose, concatenate tra loro:

  1. che la responsabilità per la diffusione delle fake news è anche di ciascuno di noi, cosa non banale perché si tende sempre ad aspettare che sia lo Spirito Santo a intervenire per metterci una pezza;
  2. che le fake news non rappresentano soltanto un problema di disinformazione (cosa di per sé già grave), perché possono causare anche immensi danni di immagine alla reputazione e pertanto anche al patrimonio dei brand che ne sono vittima;
  3. e che possiamo combatterle, a patto di accendere il cervello (ok, detta così c’è il rischio oggettivo che vinceranno loro, sob!).

Come si diffondono le fake news

Partiamo dalla responsabilità, che è di tutti. La nascita del cosiddetto citizen journalism, diffuso dai social, ha trasformato chiunque in un generatore di informazioni (non a caso i social media campano di Ugc, user generated content).

Il risultato è che alcuni principi cardine del giornalismo (come la deontologia, la verifica delle fonti, gli strumenti culturali e professionali che dovrebbero garantire un certo standard di qualità nella diffusione di notizie e informazioni, e così via), sono venuti meno. Al contrario si sono moltiplicate le occasioni di propagazione delle fake news.

Sulla stessa lunghezza d’onda di Renato Vichi è anche il professor Marino d’Amore, docente presso la Ludes Hei foundation Malta, che in un suo articolo molto interessante ha cristallizzato alcuni fattori attraverso i quali inquadrare la disinformazione sui social:

– un uso strumentale del messaggio, volutamente costruito per rendere più popolare l’informazione o per ottenere maggiore consenso (politico o commerciale), oppure per mettere in risalto alcuni aspetti di una vicenda allo scopo di metterne in ombra altri;

– la deleteria propensione del pubblico per il gossip, che ha quasi imposto la “gossippizzazione” delle notizie anche ai quotidiani tradizionali più blasonati;

– l’ingenuità, o meglio la superficialità di molti lettori, che preferiscono credere per partigianeria a notizie infondate, piuttosto che metterle in dubbio perché la verità risulterebbe più scomoda (o se non altro meno appagante);

– l’atteggiamento acritico del pubblico, che ha aiutato non poco i creatori di bufale, offrendo terreno fertile a chiunque voglia fare disinformazione o peggio propaganda.

A chi tocca “combattere” le fake news?

Non aspettiamoci che interverrà prima o poi un’entità astratta, o che sia interesse e quindi compito di Facebook trovare un algoritmo capace di annientare le fake news, o peggio ancora che tocchi ai governi mettere un freno a questa piaga (la forma di governo che controlla l’informazione e stabilisce a monte che cosa sia vero e che cosa sia falso si chiama totalitarismo e Dio ci scampi e liberi dal cedere alla tentazione di invocare l’intervento dei poteri pubblici per le fake news).

Se vogliamo contrastare in modo efficace il fenomeno delle bufale, allora, dobbiamo investire sulla cultura e sulla alfabetizzazione digitale delle persone. Come?

  1. Accendendo il cervello (ci dev’essere un tastino da qualche parte, mi dicono…).
  2. Leggendo bene il contenuto (allo scopo di capire davvero che cosa dice la notizia, perché a volte basta questo per rendersi conto dell’inconsistenza di certe informazioni).
  3. Allenando un maggiore senso di responsabilità nel condividere e diffondere news delle quali non siamo certi
  4. Sviluppando una maggiore capacità di distinguere la satira e la parodia della vera informazione.
  5. Ma soprattutto raggiungendo una certa familiarità con il concetto di “fonte” e di conseguenza una maggiore capacità di individuare le fonti più attendibili per fare un riscontro.

Contro le fake news gli anticorpi si sviluppano fin da bambini

Tutto questo è davvero fattibile, al punto tale che mentre noi siamo qua discuterne (e per carità, ben vengano tutte le occasioni di confronto su questi temi), in Svezia agiscono: il ministero della Pubblica Istruzione, infatti, ha già previsto programmi per le scuole elementari, a far data dal 2018, che dedicheranno più spazio all’insegnamento dell’informatica e all’analisi critica dell’informazione. Se, infatti, la diffusione delle fake news deriva dall’esistenza di un pubblico incapace di riconoscerle, fornire a quel pubblico – fin da bambino – il software culturale capace, come un antivirus, di debellare tutto ciò che fake è senz’altro una soluzione radicale.

In Svezia, aggiungo, l’argomento è così rilevante che perfino l’orsacchiotto Bamse, protagonista di un fumetto molto popolare fra i bambini svedesi, in un numero dello scorso febbraio ha affrontato l’argomento con un linguaggio semplice e alla portata dei più piccoli.

A quando un’operazione simile anche nelle scuole italiane?

 

 

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