Maggio sta volgendo al termine e per chi lavora nel mondo degli eventi è in assoluto uno dei mesi più pesanti. Richieste last second, richieste improbabili, richieste che si accavallano e attività così urgenti da dover essere schedulate per ieri e tutto senza perdere di vista il dannato e osannato ROI.
Tutti sul pezzo, sempre, h24. Eventi da organizzare eventi a cui partecipare, PR da coltivare, aerei da prendere, valigie sempre pronte e occhi puntati sul futuro per scegliere le migliori soluzioni, quelle più performanti, quelle non ancora adottate dalla concorrenza. Insomma… inseguimento spasmodico dell’innovazione. Adrenalina a colazione, ansie dei clienti a pranzo, problem solving per cena e vita privata in affanno.
Costantemente tirati a lucido, ma con lo Xanax nei tacchi, lo smartphone sul cuscino e gli occhi sbarrati che si alternano ad attacchi di sonno incontenibili. Insomma se tutto va bene basta un weekend di totale riposo per riprendersi, ma se qualcosa va storto, se lo stress accumulato è troppo, e troppo a lungo, quando meno te l’aspetti tutto si ferma. La stanchezza affiora all’improvviso e nei modi più strani a volte criptici, d’altra parte il corpo parla un linguaggio tutto suo. Ed ecco arrivare emicranie, inappetenza, dolori al petto, crisi di pianto, affanno, mal di stomaco, dolori alla schiena, cinismo, irritabilità, disimpegno lavorativo, apatia, frustrazioni e reazioni negative verso colleghi e familiari. Insomma ci si sente cotti, brasati, bruciati. In totale burnout.
Come si arriva a questo punto?
Non mi dilungherò sulla storia del burnout e la sua origine. Ci tengo però a soffermarmi su un dettaglio. Numerosi studi hanno dimostrato che il burnout si manifesta come problema del singolo, ma in realtà è strettamente connesso al contesto sociale/lavorativo in cui la persona è inserita. Le dinamiche lavorative e l’ambiente stesso influiscono su come le persone interagiscono e su come svolgono la propria mansione. E quando l’ambiente di lavoro non riconosce l’aspetto umano il rischio aumenta e aumenta anche in maniera esponenziale, perché si propaga come una malattia contagiosa tra i membri dello staff. Un collaboratore infelice è un collaboratore poco produttivo e poco fedele. Pensate se a esserlo è l’intero staff…
In un recente articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, Marina Salamon dichiarava che «solo le aziende in cui “la gente sta bene“ potranno vivere a lungo, perché solo esse sapranno sperimentare autentica innovazione di prodotto e di processo, coinvolgendo tutti coloro che in esse operano. Non basta: avranno futuro solo le aziende che sapranno costruire valore nel tempo, e non solo risultati economici di breve periodo, a favore di coloro che le guidano».
Cosa può fare un’azienda per prevenire il burnout?
A livello organizzativo è necessario attivare strategie che da una parte promuovano l’impegno professionale e dall’altra favoriscano l’equilibrio tra l’ambiente di lavoro e la persona. Qualche spunto:
- dividere equamente il carico di lavoro rispettando competenze e inclinazioni;
- rendere le persone attivamente partecipi del processo decisionale;
- favorire la personalizzazione dello stile e l’elasticità sugli orari;
- porre obiettivi realistici, credibili e coerenti con le pratiche organizzative;
- creare e aumentare il senso di squadra;
- riconoscere il valore della diversità e il contributo di ognuno;
Cosa può fare ognuno di noi?
Ne parleremo in un’altra occasione. Vi lascio solo una provocazione.
Perché siamo convinti che dobbiamo rispondere a messaggi ed e-mail a qualunque ora del giorno e della notte e in qualunque momento? E perché ci si illude che nonostante questo si possano prendere buone decisioni?
Io stasera per non rischiare spengo il telefono e partecipo a un aperitivo in chiave digital detox!