Editoriali e Opinioni

L’intelligenza artificiale non solo entra nelle nostre vite ma inizia a riscrivere le regole del lavoro e del valore economico. L’idea che sia proprio l’IA a pagarci la pensione potrebbe sembrare provocatoria eppure, nelle recenti dichiarazioni di Valeria Vittimberga, direttrice generale dell’INPS, questa visione ha assunto contorni sorprendenti di plausibilità. Quanto è emerso nel corso della trasmissione Codice, la vita è digitale, in onda su Rai1 non è solo uno slogan da talk show, ma l’espressione concreta di una riflessione sistemica su come la tecnologia possa diventare alleata del welfare in un’Italia che invecchia e in cui i contributi dei lavoratori non bastano più.

Per chi opera nel settore turistico-alberghiero, da sempre soggetto a stagionalità, discontinuità contributive e turni massacranti spesso mal retribuiti, questa prospettiva è tanto affascinante quanto urgente. I lavoratori dell’ospitalità sono il cuore pulsante dell’economia esperienziale italiana, ma raramente riescono a costruire una pensione solida tra contratti a chiamata, part-time involontari e contributi versati a singhiozzo, la vecchiaia è più spesso sinonimo di incertezza che di riposo.

La proposta della Vittimberga rovescia lo schema tradizionale: non più solo anni di lavoro e versamenti previdenziali come unico criterio per maturare la pensione, ma anche il valore digitale, relazionale e informativo che ciascun lavoratore produce, anche dopo il pensionamento, una sorta di “gemello digitale” che continua a generare valore. Nel turismo, dove il sapere è spesso pratico, orale, fatto di gesti e relazioni, questo concetto potrebbe diventare rivoluzionario. Pensiamo ad un maître che ha trascorso 40 anni accogliendo Ospiti con classe, riconoscendo a colpo d’occhio clienti affezionati, risolvendo problemi in tempo reale con diplomazia e savoir-faire oppure a una governante d’albergo che conosce ogni stanza come le proprie tasche, sa dove intervenire prima che accada il problema, e forma nuove leve con un colpo d’occhio o ancor di più uno Chef che ha saputo creare nuove ricette attraverso tentativi di sperimentazione. Queste competenze, oggi, spariscono con la persona che va in pensione ma cosa accadrebbe se queste esperienze potessero essere “digitalizzate”, formalizzate, trasformate in procedure, contenuti formativi, algoritmi predittivi?

Il concetto di asset digitale personale è esattamente questo: un patrimonio immateriale che continua a generare utilità anche quando il lavoratore è uscito dal mercato e nell’hotellerie dove il passaggio generazionale delle competenze è spesso caotico ciò potrebbe essere la chiave per valorizzare il lavoro svolto, trasformandolo in rendita anche dopo la pensione.

Vittimberga suggerisce che questo valore dovrebbe poter essere tassato, riconosciuto e capitalizzato ed il gemello digitale diventa quindi una sorta di “lavoratore invisibile” che paga contributi ed il lavoratore in pensione dunque, continua a beneficiare del valore prodotto dalla propria versione digitale. In un settore come quello alberghiero, dove il turn over è altissimo, questa innovazione potrebbe generare continuità e memoria aziendale, abbattendo costi di formazione e migliorando la qualità del servizio.

E non è tutto!

Con l’adozione di sistemi di IA personalizzati, un receptionist che va in pensione potrebbe lasciare il proprio avatar digitale a disposizione del front office, capace di gestire richieste, aggiornare booking engine, rispondere in più lingue e trasferire dati e feedback in tempo reale. Un concierge virtuale che incarna le esperienze di una carriera intera questo non solo aggiunge valore all’impresa, ma crea una nuova forma di previdenza: quella fondata sulla capacità del sapere di restare attivo anche senza il corpo che lo produce.

Tutto questo, naturalmente, richiede una rivoluzione normativa di un sistema pensionistico che oggi si basa unicamente su versamenti e retribuzioni. Domani, forse, potremmo avere un sistema misto, in cui le IA personali sono soggette a contribuzione, esattamente come un lavoratore autonomo e per il settore turistico-alberghiero crea una chance straordinaria per dare dignità economica anche a professioni frammentate, stagionali, a volte invisibili alle statistiche ufficiali, ma è anche una sfida culturale. Le competenze informali devono essere codificate, il sapere pratico deve essere digitalizzato, e le imprese devono investire nella formazione digitale dei propri collaboratori solo così l’IA non sarà una minaccia, ma un’estensione virtuosa del lavoro umano.

Se ben strutturato, questo meccanismo può finalmente offrire al settore turistico-alberghiero italiano un sistema previdenziale degno del valore che i suoi lavoratori generano non più solo pensioni da fame per chi ha lavorato a chiamata nei mesi estivi ma un riconoscimento concreto del sapere maturato sul campo, anche oltre la soglia dell’età pensionabile.

In conclusione, il futuro del welfare non può più essere pensato con strumenti del passato se l’intelligenza artificiale può diventare parte attiva dell’economia allora dovrebbe anche partecipare al finanziamento della previdenza e in questo nuovo scenario, i lavoratori del turismo, spesso ultimi nella scala gerarchica del riconoscimento economico, potrebbero finalmente vedere valorizzata la loro esperienza.

Non più solo lavoratori stagionali, ma produttori di capitale immateriale che continua a generare valore e a pagare, finalmente, una pensione più giusta.

In un tempo in cui il concetto di benessere ha assunto una centralità assoluta nelle dinamiche sociali e personali, la vacanza ha progressivamente abbandonato la dimensione del lusso per collocarsi nella sfera della necessità. Il viaggio, l’evasione, la pausa rigenerante non rappresentano più solamente un premio al lavoro svolto ma un elemento fondante della salute mentale, della coesione familiare, della capacità di affrontare il quotidiano. In tale contesto, il crescente ricorso all’indebitamento per finanziare il tempo libero e il turismo personale si configura come un fenomeno che merita un’analisi priva di pregiudizi, lontana dalle letture puramente moralistiche o contabili, e più vicina alle logiche di una società che muta e si adatta. Il dato iniziale da considerare è che una quota significativa della popolazione italiana non possiede risorse liquide sufficienti per permettersi una vacanza tradizionale!

Secondo le più recenti indagini, circa un terzo delle famiglie a basso reddito non è in grado di sostenere la spesa di una settimana fuori casa eppure, nello stesso tempo, si osserva un’espansione dell’offerta di prestiti finalizzati, dilazioni di pagamento, formule di credito al consumo orientate proprio al comparto turistico. Vacanze a rate, pagamenti posticipati, finanziamenti senza anticipo: strumenti che in altri ambiti sarebbero considerati opzioni secondarie, diventano soluzioni primarie per un bisogno che è ormai interiorizzato.

L’indebitamento per le vacanze dunque, non può più essere letto unicamente come un’espressione di superficialità o consumo irresponsabile, esso è invece la risposta concreta a una domanda di benessere che non trovando riscontro in un’equità redistributiva o in politiche pubbliche di sostegno al turismo sociale, si orienta verso il mercato finanziario. A fronte di un crescente disagio lavorativo, di livelli di stress elevati, di una precarietà esistenziale che intacca anche le relazioni familiari, il bisogno di una pausa significativa viene percepito come irrinunciabile. In questa chiave, il debito non rappresenta una fuga dalla realtà, ma piuttosto un ponte per raggiungere una condizione psicologica di equilibrio, spesso essenziale per ripartire.

Le motivazioni alla base di questa scelta sono molteplici e stratificate. Esistono spinte legate alla dimensione familiare – la volontà di offrire ai figli esperienze formative, il desiderio di non apparire esclusi dai riti collettivi del tempo libero, così come componenti emotive, relazionali, simboliche. La vacanza diventa uno strumento per affermare la propria normalità, per rivendicare una forma di dignità sociale che passa anche attraverso il tempo dedicato a sé stessi, si tratta di un investimento, non soltanto in senso economico, ma esistenziale. Il sacrificio finanziario è compensato da un beneficio psicologico che, nella percezione di molti, è superiore alla fatica del rimborso.

Dal punto di vista della psicologia comportamentale, numerosi studi confermano che il solo pensiero di una vacanza genera un innalzamento dei livelli ormoni legati al piacere e alla motivazione. La programmazione del viaggio attiva aree cerebrali connesse all’aspettativa positiva, mentre l’esperienza vissuta, se gratificante, contribuisce alla riduzione del cortisolo, l’ormone dello stress. In altre parole, la vacanza non è soltanto tempo libero: è tempo terapeutico, tempo rigenerativo, tempo identitario e se le risorse non lo permettono, ecco che il credito interviene come mediatore tra la realtà e il desiderio, tra il limite materiale e l’aspirazione a una migliore qualità della vita.

Questo scenario si arricchisce ulteriormente se si osserva il ruolo della comunicazione e del marketing turistico. Da anni ormai, il messaggio veicolato dalle campagne pubblicitarie è centrato sulla legittimazione della vacanza come diritto: “Hai lavorato duramente, te lo meriti”, “Crea ricordi che durano per sempre”, “Dona un sorriso ai tuoi cari”. Il turismo, soprattutto quello esperienziale, viene promosso come un percorso verso la felicità ed in tale narrazione, l’indebitamento diventa implicitamente autorizzato, se non addirittura incoraggiato. Le agenzie di viaggio, i tour operator e le piattaforme digitali offrono pacchetti completi con opzioni di pagamento frazionato, contribuendo alla diffusione del messaggio secondo cui “il benessere non può aspettare”.

Il rischio, tuttavia, è che questa normalizzazione del debito per fini ricreativi si trasformi in una deriva. La ripetitività del comportamento, la sottovalutazione dell’impatto economico nel medio-lungo periodo, la somma di piccoli prestiti che diventano un’unica grande esposizione, possono condurre al sovraindebitamento. Il confine tra debito funzionale e debito patologico è sottile, e spesso viene oltrepassato inavvertitamente, specialmente in contesti dove mancano strumenti di educazione finanziaria diffusa ed in questo senso, la dimensione culturale del fenomeno non può essere trascurata. In molte famiglie italiane, la vacanza rappresenta un elemento di identità collettiva, una sorta di “prova” di appartenenza sociale. Non partire diventa quasi una sconfitta personale, un motivo di vergogna o di disagio ed ecco che il debito, anche se gravoso, viene scelto per evitare l’esclusione simbolica.

I numeri, a conferma di quanto detto, mostrano una tendenza chiara: nel 2024, oltre il 19% degli italiani ha ricorso a strumenti di credito per sostenere le spese legate alle ferie. Un dato in costante crescita, che coinvolge prevalentemente la fascia tra i 30 e i 50 anni, ovvero soggetti in piena età lavorativa, spesso con figli e ciò che sorprende è che una larga maggioranza di chi ha optato per questa soluzione dichiara, a posteriori, di non pentirsene. L’esperienza della vacanza è stata talmente benefica da giustificare pienamente l’esborso dilazionato: è qui che il concetto di “debito sano” trova una sua legittimità. Quando il credito è consapevole, proporzionato, finalizzato al benessere, esso può avere una funzione sociale positiva.

Ma se vogliamo che questo equilibrio venga mantenuto, occorre che le istituzioni prendano parte attiva al discorso. Il diritto alla vacanza non dovrebbe essere garantito solo dal mercato finanziario, ma anche da politiche pubbliche mirate. Il turismo sociale, i voucher per famiglie numerose o in difficoltà economica, le agevolazioni per soggiorni educativi o terapeutici potrebbero rappresentare soluzioni concrete per rendere più equa l’accessibilità al tempo libero. Non si tratta di assistenzialismo, ma di una visione moderna del welfare, in cui la salute mentale e la qualità della vita sono riconosciute come elementi strutturali dello sviluppo umano.

In una società dove il tempo è sempre più frammentato, il lavoro spesso precario e la pressione sociale intensa, la vacanza assume il valore di un rito laico, di un balsamo necessario, di uno spazio di resistenza e se per ottenerlo si fa ricorso a un prestito, forse il vero problema non è il debito, ma l’assenza di alternative.

In questi tempi segnati da tensioni internazionali, escalation militari, attacchi terroristici e minacce più sfumate ma ugualmente inquietanti, la paura torna ad affacciarsi con forza nel mondo dei viaggi. Non è una novità: il turismo, più di ogni altro settore, è sensibile all’instabilità. A cambiare però è il modo in cui questa paura si manifesta e soprattutto come viene (o dovrebbe essere) gestita.

In queste ore sentiamo chi vuole cancellare una vacanza per una notizia letta, chi esita di fronte a una meta lontana per via di un conflitto, anche se a diverse centinaia di chilometri di distanza, chi teme di trovarsi “nel posto sbagliato al momento sbagliato”, anche dove nessuna autorità ufficiale segnala un pericolo concreto. La Farnesina ovviamente non ha emesso alcuno sconsiglio, le compagnie aeree volano regolarmente (o quasi), le assicurazioni coprono. Eppure il cliente ha paura. Perché ci sono chiusure di spazi aerei, ritardi, contrattempi, quasi sempre fatti proprio per la sicurezza, ma che aumentano la percezione contraria. E spesso il settore turistico non sa come reagire.

Il problema è che troppo spesso si prova a rispondere alla paura con strumenti razionali: si citano le policy, si ricordano le penali, si puntualizza che non ci sono zone vietate, si invita a “stare tranquilli”. Ma la paura non è razionale. È una reazione emotiva. Negarla o minimizzarla non solo è inefficace, ma rischia di compromettere il rapporto di fiducia tra cliente e agente di viaggio, tra turista e tour operator. La paura non va scacciata con le parole, ma gestita con l’ascolto.

Ogni paura, infatti, ha una sua radice. C’è chi teme per la propria sicurezza fisica, chi ha vissuto esperienze personali che rendono certi scenari troppo angoscianti, chi teme di perdere soldi e tempo, chi semplicemente sente di non potersi rilassare in un clima incerto. Capire che tipo di paura muove il cliente è il primo passo per accompagnarlo, non per convincerlo.

Per i viaggi già prenotati, è essenziale mantenere una comunicazione aperta. In certi casi, si potrà rassicurare con informazioni aggiornate e fonti autorevoli, in altri si potrà offrire flessibilità, soluzioni alternative, possibilità di posticipare. L’empatia, in questi frangenti, vale più di ogni schema commerciale. Meglio ancora una buona assicurazione acquistata prima di partire: avere delle opzioni di annullamento e posticipo è il miglior investimento che si possa fare e una grande arma a disposizione degli intermediari di viaggi.

Per i viaggi che si stanno progettando si possono proporre opzioni diversificate, itinerari alternativi, magari in zone più stabili ma ugualmente ricche di fascino. Il mondo è grande, e l’esperienza del viaggio non si riduce a un’unica destinazione. Più complicato forse gestire gli scali in medio oriente, spesso non ci sono alternative per raggiungere alcuni posti, possiamo però almeno stilare alcuni suggerimenti operativi per chi lavora nel settore:

  • Ascoltare attivamente il cliente, senza interrompere, senza giudicare, senza tentare di “convincere” subito.
  • Chiedere chiaramente quale sia la natura della sua paura: teme un attentato? Un attacco militare? La perdita economica? L’instabilità politica?
  • Differenziare le risposte: se la paura è perdere soldi, consigliare assicurazioni più estese, o formule flessibili di prenotazione. Se la paura è per la propria sicurezza, proporre mete alternative con profilo di rischio più basso.
  • Evitare di citare la Farnesina come unico criterio: per molti clienti, la percezione conta più della valutazione ufficiale.
  • Allenare anche lo staff alla gestione emotiva: la formazione degli agenti deve includere anche elementi di comunicazione empatica e gestione del cliente ansioso.
  • Rendere la flessibilità un punto di forza, non un’eccezione concessa con fatica.

Infine, non va dimenticato che l’incertezza globale è oggi una costante. I viaggiatori che si sentono ascoltati, compresi e supportati torneranno a viaggiare. Magari non subito, magari non ovunque, ma con fiducia. E questa fiducia è il bene più prezioso da coltivare.

Negli ultimi mesi il panorama geopolitico mondiale ha subito un’ulteriore e drammatica trasformazione con nuove zone di conflitto che si sono aperte, innescando una spirale di instabilità che inevitabilmente ha effetti anche sul turismo internazionale. Le immagini di guerre lampo, bombardamenti urbani, evacuazioni e mobilitazioni militari scorrono ininterrottamente nei notiziari e nei feed social, generando una diffusa sensazione di vulnerabilità ed in questo contesto, molti operatori del turismo si chiedono se questa percezione di insicurezza globale possa provocare una flessione nei flussi turistici verso l’Italia, un Paese notoriamente percepito come sicuro ma comunque esposto alle dinamiche europee e mediterranee. La domanda, concreta e legittima, è se la paura di attentati terroristici o di escalation regionali possa raffreddare il desiderio di viaggiare in Italia, specie da parte dei turisti extraeuropei.

In passato è successo che tensioni politiche in altre parti del mondo hanno in realtà portato più flussi verso l’Italia, considerata un paese più sicuro, ma oggi è ancora così o esiste un reale rischio di rallentamento? E se sì, come può il sistema turistico italiano rispondere e rafforzare la propria immagine di sicurezza e accoglienza?

Per rispondere con lucidità è necessario partire dai dati. L’Italia ha chiuso il 2023 con oltre 430 milioni di presenze turistiche, un numero quasi in linea con il periodo pre-Covid. Il 2024 ha confermato la ripresa con percentuali a doppia cifra in molte regioni, e il 2025, si prevede come un anno di ulteriore espansione. L’appeal dell’Italia come destinazione turistica resta altissimo, e Roma, Firenze, Venezia, Milano, Napoli e le grandi località balneari continuano a essere inserite stabilmente nelle classifiche mondiali delle mete più desiderate, tuttavia, parallelamente a questi numeri positivi, si registra un lieve ma costante aumento di una sensazione diffusa di allarme tra i viaggiatori, soprattutto provenienti da Paesi anglosassoni e asiatici, che spesso associano Europa e Mediterraneo a un’area instabile a causa delle tensioni in Medio Oriente, delle frizioni al confine orientale dell’Unione Europea, dei passati attacchi terroristici in Francia, Belgio e Germania. Anche se l’Italia non è stata colpita direttamente da eventi terroristici recenti, l’effetto contagio della paura si trasmette con rapidità nel sistema globale dell’immaginario collettivo.

La paura, d’altronde, è uno dei fattori più determinanti nelle scelte turistiche, spesso più della distanza, del costo o del comfort e non è raro che una semplice allerta di viaggio diffusa da uno stato estero possa provocare migliaia di disdette in pochi giorni, anche in assenza di eventi concreti. Questo meccanismo si è osservato durante le fasi più acute della pandemia, ma anche in seguito ad attentati in località come Parigi, Istanbul, Bruxelles, Nizza. La comunicazione immediata, amplificata e spesso sensazionalistica contribuisce a ingigantire la percezione del rischio, ben oltre la sua reale portata e proprio questa discrepanza tra rischio percepito e rischio reale rappresenta la sfida principale per il turismo italiano. Non basta essere sicuri, bisogna anche esserlo nella narrazione che si restituisce al mondo.

L’apertura di nuovi scenari bellici, come le recenti tensioni ed il riaccendersi delle ostilità tra Israele e Hamas con l’epilogo di pochi giorni fa in Iran, rappresenta un contesto potenzialmente minaccioso per la mobilità globale e le compagnie aeree sono spesso costrette a modificare rotte, aumentano i costi di carburante e assicurativi per i viaggi e a causa di ciò si verificano blocchi improvvisi nei porti o negli aeroporti strategici con ricadute indirette anche su Paesi come l’Italia, che pure non sono coinvolti direttamente.

L’Italia dispone, da questo punto di vista, di un grande vantaggio competitivo: è percepita nel mondo come un Paese pacifico, stabile, legato alla bellezza, all’arte, alla storia, al cibo, rappresenta nell’immaginario collettivo un rifugio culturale, un simbolo di civiltà, un territorio rasserenante. Tuttavia, la sua collocazione geografica nel cuore del Mediterraneo e le sue frontiere aperte con l’Europa la rendono potenzialmente esposta a infiltrazioni, migrazioni incontrollate e rischi indiretti legati al terrorismo internazionale e non va dimenticato che anche l’Italia è stata oggetto di minacce simboliche da parte di organizzazioni terroristiche benché mai concretizzate. Inoltre, alcuni episodi di violenza urbana o criminalità organizzata, seppur circoscritti, vengono spesso presentati all’estero come segnali di instabilità ed è per questo che la sicurezza deve diventare una priorità strategica anche per il settore turistico.

Gli operatori alberghieri, i tour operator, le compagnie di trasporto e le istituzioni locali devono collaborare per costruire un sistema di accoglienza che sia percepito come protetto, ben organizzato, attento e questo significa innanzitutto comunicare in modo trasparente e costante tutte le misure messe in atto per la sicurezza dei turisti, dalla videosorveglianza urbana ai controlli negli aeroporti, dalla presenza di forze dell’ordine nei luoghi turistici alla gestione delle emergenze. Significa anche formare il personale dell’accoglienza a rassicurare l’ospite in caso di crisi e significa soprattutto, creare un clima sociale favorevole alla convivenza, evitando che fenomeni di degrado urbano o tensione sociale si trasformino in terreno fertile per la radicalizzazione o per atti di emulazione.

Oltre agli aspetti legati alla sicurezza interna, l’Italia deve anche rafforzare la propria posizione nei circuiti della diplomazia turistica, essere considerati una destinazione sicura passa anche per il dialogo continuo con le ambasciate, con le compagnie aeree internazionali, con gli enti di promozione all’estero. Bisogna far sapere, con forza, che l’Italia è un Paese attento, stabile, con servizi medici efficienti, con un sistema di protezione civile tra i migliori al mondo, con un settore alberghiero maturo e capillare ed ogni informazione positiva deve essere diffusa capillarmente, non solo attraverso le fonti istituzionali, ma anche attraverso i media, i social network, gli influencer, i testimonial.

Il turismo è anche emozione e fiducia e quando un turista decide di prenotare un viaggio, lo fa in base a un desiderio, a una promessa, a un’immagine e se l’immagine del Paese si offusca, se la fiducia si incrina, anche il desiderio si raffredda. Ed è qui che si gioca la partita del futuro! Non possiamo prevedere con certezza se nuove guerre esploderanno o se nuovi attentati colpiranno l’Europa, ma possiamo essere certi che il modo in cui l’Italia saprà raccontarsi farà la differenza tra subire gli effetti della paura o trasformarsi in un’alternativa rassicurante e attrattiva.

Negli ultimi anni Napoli è passata dall’essere una città spesso trascurata nei grandi circuiti internazionali a diventare uno dei fenomeni turistici più affascinanti del panorama europeo. La crescita dei flussi, l’attenzione dei media internazionali, il rinnovato interesse degli investitori nel settore ricettivo e la riscoperta del suo patrimonio artistico e culturale ne fanno oggi una delle destinazioni più dinamiche del Mediterraneo. Ma dietro l’euforia dei numeri si cela una domanda fondamentale per chi lavora nel turismo, dagli operatori locali agli amministratori pubblici, dai consulenti agli imprenditori dell’accoglienza: questo boom sarà duraturo o è destinato a spegnersi come una fiammata passeggera. Per rispondere occorre innanzitutto comprendere che cosa ha reso possibile questa accelerazione improvvisa.

Napoli è riuscita a coniugare diversi fattori in un equilibrio potente e al momento vincente, la prima chiave è l’autenticità! In un’epoca in cui il turista cerca esperienze vere, contatto umano, senso di appartenenza ai luoghi che visita, Napoli si propone come uno dei pochi spazi urbani europei dove il vissuto quotidiano è ancora profondamente intrecciato alla cultura popolare. I vicoli affollati, i mercati rionali, i profumi che invadono le strade, la gestualità, le voci, i rituali quotidiani sono parte integrante dell’esperienza turistica. Napoli non è costruita per i turisti, fuoriesce da un’ipotetica lista di “destinazioni standard” ed è proprio per questo che i turisti la cercano. Un secondo fattore è legato alla potenza del suo immaginario culturale, alimentato negli ultimi anni da una produzione artistica e narrativa di respiro internazionale. I romanzi di Elena Ferrante, la serie TV Gomorra, il successo di Mare Fuori, la musica di artisti contemporanei hanno restituito Napoli a un pubblico globale, spesso giovane e cosmopolita, creando un ponte emozionale tra il visitatore e la città ancor prima dell’arrivo fisico. Ciò ha permesso a Napoli di diventare più di una meta: è diventata uno stato mentale, un’idea potente, un simbolo di vitalità e complessità urbana.

Non va sottovalutato il ruolo della gastronomia, forse il più efficace strumento di attrazione turistica. L’enorme varietà e qualità della cucina partenopea, dai piatti di strada come la pizza fritta e il cuoppo, fino ai ristoranti stellati e alle trattorie storiche, rappresenta un patrimonio immateriale che genera fidelizzazione. I turisti mangiano a Napoli non solo per necessità, ma per desiderio e la cucina diventa racconto, memoria, rituale. Il “food tourism” a Napoli non è un comparto a parte ma è parte integrante della strategia di posizionamento della destinazione. A questi elementi si aggiunge la riscoperta del patrimonio culturale e museale: il centro storico di Napoli, tra i più estesi d’Europa e riconosciuto dall’UNESCO, si propone come una sequenza continua di stratificazioni storiche, che vanno dalla città greco-romana sotterranea ai fasti del barocco, fino alle testimonianze contemporanee di street art e design urbano, inoltre la vicinanza con siti iconici come Pompei, Ercolano, la Reggia di Caserta, Capri e la Costiera ha contribuito a rafforzare l’attrattività della città come hub turistico strategico.

Ma è proprio questo successo che impone una riflessione strategica dove uno dei rischi di questo boom è il collasso. Al crescere della domanda turistica, le città che non riescono a gestire l’impatto rischiano di trasformare il turismo da risorsa a problema (Venezia, Barcellona, Amsterdam lo insegnano). A Napoli si cominciano a vedere i segni di un overtourism in formazione: congestione nei quartieri centrali, pressione abitativa legata alla proliferazione di affitti brevi, carichi infrastrutturali non sempre adeguati, perdita di residenzialità nei luoghi più turistici, aumento del turismo mordi e fuggi e per evitare che tutto ciò si trasformi in una deriva, servono visione, coordinamento e lungimiranza. Napoli deve costruire un modello turistico che vada oltre l’improvvisazione e il vantaggio immediato, serve innanzitutto una strategia di decentramento dell’offerta: la città non può più reggere la pressione solo sul centro storico e sul lungomare, quartieri come la Sanità, Capodimonte, Materdei, Bagnoli e l’area Flegrea devono essere valorizzati e messi in rete con itinerari alternativi, capaci di distribuire i flussi e generare benefici economici più equi. Questo implica investimenti in mobilità, segnaletica, sicurezza, animazione culturale e supporto all’imprenditoria locale. Un secondo pilastro fondamentale è l’innalzamento della qualità dell’accoglienza, non basta aprire strutture ricettive: serve personale formato, preparato, motivato. L’accoglienza è il primo e l’ultimo punto di contatto con il turista, e spesso ciò che definisce la reputazione complessiva di una destinazione, occorre quindi investire nella formazione linguistica, digitale e relazionale degli operatori, valorizzare le scuole di turismo, sostenere progetti di aggiornamento costante.

Accanto a questo, è necessario regolare in maniera più efficace il settore dell’extra-alberghiero, il boom dei B&B ha avuto un ruolo determinante nella rinascita turistica di Napoli ma oggi rischia di generare effetti distorsivi se non governato: aumento dei prezzi delle abitazioni, sostituzione della residenza stabile con l’ospitalità temporanea, concorrenza sleale nei confronti degli hotel tradizionali. Serve una mappatura completa, una regolamentazione coerente, una fiscalità equa che premi la qualità e scoraggi l’improvvisazione e l’abusivismo. Altro nodo cruciale è la valorizzazione del patrimonio immateriale: Napoli è fatta anche di voci, canti, racconti, rituali, spiritualità popolare, artigianato e i residenti non devono essere spettatori del fenomeno turistico, ma attori protagonisti. Ogni bottega, ogni piazza, ogni cucina può diventare luogo di esperienza ma ciò richiede strumenti, formazione, reti di collaborazione tra pubblico, privato e terzo settore. A monte di tutto, è necessaria una governance forte, multilivello, capace di coordinare Comune, Regione, associazioni di categoria, università, enti culturali e comunità locali, un piano strategico condiviso, fondato su obiettivi misurabili, visione a lungo termine e monitoraggio costante dei risultati deve sostituire l’approccio frammentario e reattivo che spesso caratterizza la gestione del turismo urbano in Italia.

Infine, Napoli deve imparare a conoscersi attraverso i dati. Solo con strumenti di analisi, big data, osservatori permanenti sul turismo sarà possibile anticipare i trend, calibrare le politiche, adattarsi alle sfide. Napoli ha oggi una straordinaria opportunità: diventare una capitale turistica del Mediterraneo non solo per quantità di flussi, ma per qualità dell’offerta e sostenibilità del modello ma questo salto richiede maturità, responsabilità e coraggio e non basta più accogliere il turismo, bisogna progettarlo, plasmarlo, condividerlo e il boom può diventare uno spartiacque, l’inizio di una nuova era.

Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha aggiornato nei giorni scorsi il livello di allerta per i cittadini americani in viaggio in Italia, passando da Livello 1 (“Usare le normali precauzioni”) a Livello 2 (“Esercitare maggiore cautela”). La motivazione principale dietro questa decisione è il possibile rischio di attentati terroristici in aree pubbliche, soprattutto in vista dell’estate e dei numerosi eventi internazionali in programma in Europa. Allo stesso livello dell’Italia, in Europa, ci sono Germania, Francia, UK, Belgio e Spagna: tutte hanno ricevuto l’aggiornamento del livello di allerta durante il mese di maggio 2025. Si tratta di una mossa che fa discutere, anche per le sue ricadute in termini di percezione della sicurezza e di impatto sui flussi di incoming verso l’Europa.

Come funziona il sistema di Travel Advisory

Il sistema di Travel Advisory del Dipartimento di Stato USA prevede 4 livelli di allerta per i viaggi all’estero:

  1. Livello 1 – Normali precauzioni: il Paese è considerato sicuro, basta comportarsi con attenzione generale. Esempi attuali: Svizzera, Malta, Giappone, Repubblica Ceca
  2. Livello 2 – Maggiore cautela: esistono rischi specifici (terrorismo, criminalità, disordini). Viaggio possibile, ma con vigilanza.
  3. Livello 3 – Rivalutare il viaggio: rischio elevato. Si consiglia di evitare viaggi non essenziali. Esempi attuali: Uganda, Bangladesh, Colombia
  4. Livello 4 – Non viaggiare: rischio estremo (guerre, terrorismo, crisi umanitarie). Viaggio sconsigliato in modo assoluto. Esempi attuali: Russia, Corea del Nord, Venezuela, Siria, Yemen

I livelli sono aggiornati in base all’evolversi della situazione internazionale.

Implicazioni per il turismo europeo

L’innalzamento del livello di rischio – pur non accompagnato da restrizioni di viaggio – potrebbe avere un effetto deterrente per una parte della clientela americana più sensibile al tema della sicurezza. Secondo le stime dell’European Travel Commission, gli Stati Uniti rappresentano una delle principali fonti di turismo extraeuropeo, con l’Italia che solo nel 2024 ha accolto oltre 6 milioni di turisti americani, molti dei quali attratti da arte, enogastronomia e itinerari culturali.

Nel breve periodo, tour operator e albergatori temono cancellazioni last-minute o una intensificazione del calo di prenotazioni dagli USA, già in atto per ragioni geopolitiche. Diversi enti del turismo hanno già iniziato a rassicurare i viaggiatori, ribadendo che l’allerta è precauzionale e che le condizioni di sicurezza nel Paese restano sotto controllo.

Una misura di sicurezza o un’azione protezionistica?

Il provvedimento ha suscitato anche interpretazioni critiche. Alcuni osservatori si domandano se l’avviso non possa rientrare, almeno in parte, in una strategia più ampia per favorire il turismo domestico statunitense o dirottare le scelte di viaggio verso destinazioni americane o dei Caraibi, considerate “più sicure” secondo le stesse classificazioni del Dipartimento di Stato.

Va ricordato che l’amministrazione USA utilizza queste scale di rischio non solo per motivi di sicurezza ma anche come leva diplomatica o segnale politico, in un periodo in cui le relazioni transatlantiche sono influenzate da temi complessi come la gestione della guerra in Ucraina, il conflitto in Israele e le politiche sui dazi. Non ci sono però prove concrete che indichino una volontà di penalizzare l’Europa turistica per motivi economici o politici, trattandosi di un innalzamento a livelli bassi. Più probabilmente, la decisione riflette una maggiore prudenza generale dell’amministrazione USA in un contesto globale percepito come instabile.

Cosa succede ora

Per il viaggiatore americano medio, questo significa solo una maggiore attenzione richiesta durante gli spostamenti, ma nessuna limitazione formale. Le ambasciate e i consolati statunitensi continuano a operare normalmente e i voli non sono soggetti a modifiche. Le compagnie assicurative, tuttavia, potrebbero aggiornare le condizioni delle polizze viaggio in funzione del nuovo livello di rischio. L’effetto sull’estate 2025 sarà misurabile solo nelle prossime settimane, in un trend generale che vede già cautela nelle prenotazioni da parte dei turisti USA:

L’Italia, con il suo patrimonio culturale millenario, la varietà paesaggistica, la ricchezza artistica e la tradizione enogastronomica, rappresenta da sempre una delle mete turistiche più affascinanti al mondo eppure, nonostante questo indiscusso potenziale, il Paese non riesce a posizionarsi stabilmente come la destinazione turistica più visitata del pianeta. Superata da Paesi come la Francia, la Spagna e gli Stati Uniti, l’Italia continua a inseguire una leadership turistica che, per caratteristiche intrinseche, potrebbe già appartenerle. La risposta a questa apparente contraddizione risiede in una serie di fragilità strutturali e gestionali che impediscono al sistema turistico italiano di esprimere pienamente la propria competitività a causa soprattutto della frammentazione della governance. La distribuzione delle competenze tra Stato, Regioni e Comuni ha prodotto un assetto decisionale disperso, nel quale mancano una regia unitaria e una visione strategica condivisa dove la promozione del brand Italia, in particolare, risente dell’assenza di un’entità nazionale forte e riconoscibile in grado di coordinare efficacemente le azioni promozionali. Questa debolezza si riflette in un’immagine internazionale a volte confusa, in cui prevalgono narrazioni locali scollegate anziché una visione integrata dell’offerta turistica nazionale, accanto alle quali si somma una rete di infrastrutture inadeguate. Il sistema dei trasporti, soprattutto al Sud e nelle aree interne, è carente rispetto alle esigenze di un turismo moderno e internazionale e gli aeroporti secondari faticano a integrarsi con le principali reti ferroviarie e stradali. Manca un hub aeroportuale nazionale capace di competere con quelli delle grandi capitali europee e ciò, compromette l’accessibilità delle destinazioni minori che potrebbero fungere da leva per destagionalizzare i flussi e distribuire meglio i benefici economici del turismo.

Un ulteriore ostacolo risiede nella comunicazione promozionale, spesso superata nei contenuti e negli strumenti con una narrazione dell’Italia turistica che tende tuttavia a rifugiarsi in stereotipi consolidati – arte, storia, cibo – senza riuscire a valorizzare adeguatamente l’enorme varietà di esperienze offerte dal territorio. L’uso dei canali digitali e delle piattaforme social non è sempre efficace né sistematico, risultando poco incisivo nel raggiungere i nuovi target globali, in particolare le giovani generazioni digitalmente native e la comunicazione, spesso non è orientata verso un marketing strategico, basato sull’analisi dei dati, sulle preferenze dei mercati e sulle dinamiche stagionali. Manca una regia capace di collegare narrazione e promozione commerciale, integrando comunicazione, vendite e relazioni pubbliche in un disegno coerente e flessibile. In molte realtà, soprattutto nelle piccole imprese e nei territori meno sviluppati, gli operatori del turismo non dispongono di una formazione adeguata rispetto agli standard internazionali. La scarsa conoscenza delle lingue straniere, l’uso limitato delle tecnologie digitali e la mancanza di una cultura dell’accoglienza orientata al Cliente internazionale compromettono la qualità dell’esperienza turistica, riducendo le probabilità di fidelizzazione del visitatore. L’aggiornamento professionale e la formazione continua dovrebbero diventare pilastri delle politiche pubbliche e delle strategie d’impresa, con un rafforzamento dei percorsi formativi tecnico-pratici e accademici.

Un elemento critico che merita attenzione è anche l’utilizzo dei fondi pubblici, nazionali ed europei oltre alla finanza agevolata Nonostante la disponibilità di risorse finanziarie significative, la capacità progettuale e di spesa è spesso ostacolata da iter burocratici complessi e da una visione di breve termine con progetti che mancano spesso di coerenza strategica e gli investimenti non sempre generano ricadute durature sul territorio. Sarebbe invece fondamentale indirizzare queste risorse verso interventi strutturali, innovazione dei prodotti turistici e rigenerazione delle destinazioni meno note. I fondi europei per lo sviluppo regionale (FESR) e i programmi del PNRR rappresentano un’opportunità storica per trasformare il sistema turistico italiano, ma solo se guidati da piani coerenti, misurabili e ben integrati nel tessuto imprenditoriale locale.

L’over-tourism è un ulteriore aspetto da affrontare con urgenza. Le grandi città d’arte come Roma, Venezia e Firenze, oltre ad alcune località costiere e lagunari, soffrono di un’affluenza turistica incontrollata che compromette il patrimonio culturale, la vivibilità urbana e la soddisfazione degli stessi turisti. In parallelo, vaste zone del Paese, ricche di potenzialità, restano ai margini del sistema turistico nazionale, escluse dai principali circuiti di promozione e investimento. Occorre sviluppare politiche mirate a favorire il turismo diffuso, attraverso la valorizzazione di borghi, aree rurali e percorsi tematici, con un’attenzione particolare alla sostenibilità e alla qualità dell’offerta.

Il concetto di “turismo lento”, che promuove esperienze immersive e rispettose dell’ambiente e della cultura locale, rappresenta una leva fondamentale per ridurre le pressioni sulle mete più frequentate e per distribuire i flussi turistici in maniera più equilibrata. Le reti di cammini, i percorsi enogastronomici, i festival culturali locali e le esperienze a contatto con la natura e le tradizioni rappresentano risorse da potenziare, soprattutto in sinergia con l’agricoltura, l’artigianato e l’economia circolare. L’Italia deve inoltre rafforzare la sua capacità di attrazione nei confronti dei mercati emergenti, che rappresentano il futuro della domanda turistica globale mentre la promozione continua a essere concentrata prevalentemente sui Paesi europei e nordamericani e risulta ancora debole nei confronti di potenziali flussi provenienti da Asia, America Latina, Africa e Medio Oriente. Per intercettare questi nuovi turismi, è essenziale adattare l’offerta culturale, comunicativa e logistica alle esigenze specifiche di ciascun mercato, potenziando anche le competenze linguistiche e interculturali degli operatori.

Sarebbe strategico avviare accordi bilaterali con i Paesi prioritari, facilitare i visti turistici, sviluppare una presenza istituzionale capillare in fiere internazionali e incentivare l’apertura di voli diretti verso destinazioni italiane da grandi hub asiatici e sudamericani, inoltre, bisogna riconoscere l’importanza crescente delle nuove motivazioni di viaggio, tra cui il turismo del benessere, il turismo spirituale, il turismo medico, il turismo LGBTQ+ e quello esperienziale. L’Italia, per sua natura e vocazione, potrebbe proporsi come meta ideale per tutti questi segmenti, ma è necessario sviluppare prodotti specifici, infrastrutture adeguate e una comunicazione mirata. Serve anche una maggiore attenzione all’inclusività e all’accessibilità, per rendere le destinazioni italiane fruibili a tutti, indipendentemente dalle condizioni fisiche, economiche o culturali.

La transizione digitale è un altro nodo centrale: molte strutture ricettive, attrazioni culturali e destinazioni locali non sono ancora pienamente digitalizzate e la presenza online è spesso frammentata, non aggiornata o non ottimizzata per la prenotazione e l’interazione in tempo reale. È invece fondamentale adottare piattaforme integrate, strumenti di intelligenza artificiale e analisi dei dati, realtà aumentata, esperienze immersive e sistemi di customer relationship management per migliorare la gestione, la promozione e la fidelizzazione del cliente.

In sintesi, l’Italia dispone di tutte le risorse necessarie per diventare la prima destinazione turistica mondiale, ma per realizzare questa ambizione è indispensabile superare le attuali inefficienze, dotarsi di una governance unitaria, investire in formazione, innovazione e infrastrutture, diversificare l’offerta e rafforzare la presenza nei mercati emergenti, solo attraverso un approccio integrato, sostenibile e orientato alla qualità sarà possibile trasformare il potenziale in leadership effettiva. Il turismo può e deve rappresentare uno dei pilastri strategici per il futuro del Paese. È il momento di agire con visione, coraggio e determinazione.

Negli ultimi giorni, il settore turistico italiano è stato scosso da una notizia che ha riportato al centro del dibattito una professione chiave per la valorizzazione del nostro patrimonio: quella della guida turistica. Il Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) del Lazio ha accolto il ricorso presentato dall’ANGT, l’Associazione Nazionale Guide Turistiche, contro il bando del concorso nazionale indetto dal Ministero del Turismo per l’abilitazione delle nuove guide. La notizia ha sollevato reazioni contrastanti, riflessioni profonde e, soprattutto, l’urgenza di ridefinire i criteri di accesso alla professione e i metodi di certificazione delle competenze.

Ma andiamo con ordine.

Per anni il mondo delle guide turistiche ha vissuto in una sorta di limbo normativo. Dopo l’abolizione delle vecchie norme regionali in attesa di una regolamentazione nazionale uniforme, il Ministero del Turismo quest’anno ha finalmente bandito un concorso pubblico per la selezione e abilitazione di nuove guide, con validità su tutto il territorio italiano. L’obiettivo dichiarato era duplice: da un lato, colmare il vuoto normativo e dare un assetto definitivo alla professione; dall’altro, rispondere alla crescente domanda di servizi guidati qualificati in un’Italia che continua ad attrarre milioni di visitatori ogni anno. Tuttavia, il bando, seppur atteso da tempo, ha sollevato sin da subito critiche da parte delle associazioni di categoria. Alcuni aspetti, in particolare, sono stati considerati lesivi della professionalità e del valore culturale del mestiere di guida turistica.

L’ANGT, in rappresentanza di numerosi professionisti del settore, ha presentato ricorso al TAR del Lazio, evidenziando come il bando contenesse diverse disposizioni problematiche. Tra le più contestate, l’accesso al concorso aperto anche a chi è in possesso del solo diploma di scuola superiore, senza l’obbligo di una laurea, una scelta che, secondo l’associazione, rischia di svilire una professione che richiede profonde competenze storiche, artistiche, linguistiche e culturali. Un secondo punto critico riguarda le lingue straniere: il bando, infatti, non prevede l’obbligo di certificazioni linguistiche internazionali, considerando che il lavoro delle guide turistiche si svolge in gran parte con visitatori provenienti dall’estero, molti ritengono inaccettabile che si possa accedere alla professione senza dimostrare in modo oggettivo un’elevata padronanza di almeno una lingua straniera. Infine, è stata messa in discussione la scelta di rilasciare un’abilitazione nazionale, senza alcuna distinzione territoriale, in un Paese come l’Italia, la cui ricchezza culturale e paesaggistica varia profondamente da regione a regione, molti operatori considerano essenziale mantenere una dimensione locale o almeno interregionale dell’abilitazione, per valorizzare la specificità dei territori e incentivare una formazione mirata.

Il 15 maggio 2025 il TAR del Lazio ha emesso un’ordinanza con la quale ha accolto l’istanza cautelare dell’ANGT, sospendendo di fatto l’efficacia del bando fino alla discussione di merito fissata per il 14 ottobre 2025. La decisione ha suscitato grande attenzione: non si tratta solo di una sospensione tecnica, ma di un riconoscimento, seppur provvisorio, della fondatezza delle argomentazioni avanzate dall’associazione. Il TAR ha anche invitato il Ministero a non procedere con iniziative che possano pregiudicare le istanze sollevate, inclusa l’abilitazione delle nuove guide in forza del concorso impugnato, in parole semplici, tutto è fermo! E con l’alta stagione turistica alle porte, questa situazione ha generato preoccupazione sia tra i candidati sia tra gli operatori del turismo, che già lamentano una carenza di guide autorizzate. Nonostante l’ordinanza, si intuisce che è intenzione del Ministero del Turismo di voler procedere con lo svolgimento degli esami e dunque il blocco non dovrebbe pregiudicare alcun annullamento. 

Un segnale che mostra però come l’intero impianto normativo sia oggi oggetto di tensioni istituzionali e interpretazioni divergenti. Altre associazioni di categoria, pur condividendo molte delle perplessità sollevate dall’ANGT, si sono dette preoccupate per l’impatto che un’eventuale cancellazione o modifica del concorso potrebbe avere sull’intero settore, è il caso dell’AGTA, che ha sottolineato come la sospensione possa aggravare la carenza di guide in alcune aree ad alta domanda, proprio nel momento in cui il turismo internazionale sta tornando ai livelli pre-pandemici.

Questa vicenda giudiziaria rappresenta solo la punta dell’iceberg di un problema più ampio e strutturale: la necessità di ripensare il sistema di accesso e abilitazione alla professione di guida turistica in Italia, è giunto il momento di avviare una riflessione profonda e condivisa, che non si limiti alla risoluzione di un ricorso, ma affronti in modo sistemico la questione. In un contesto sempre più competitivo, in cui il turismo esperienziale, culturale e sostenibile richiede figure altamente qualificate, il processo di abilitazione deve essere espressione di eccellenza e non un ostacolo formale. Le guide turistiche sono ambasciatori culturali, narratori del territorio, mediatori tra il patrimonio e il visitatore è quindi doveroso che il percorso per diventarlo sia rigoroso, selettivo e soprattutto coerente con le esigenze del turismo contemporaneo.

Alla luce delle criticità emerse, è possibile avanzare alcune proposte operative per la costruzione di un nuovo modello di abilitazione delle guide turistiche:

  • – L’accesso al nuovo concorso dovrebbe essere riservato a candidati con un indirizzo scolastico in discipline attinenti (beni culturali, storia dell’arte, archeologia, lingue, turismo, ecc.), con l’aggiunta di una certificazione linguistica almeno di livello B2 per la lingua straniera principale, in questo modo, si garantirebbe una solida base culturale e la capacità di comunicare con un pubblico internazionale.
  • Si potrebbe strutturare un’abilitazione su base modulare: una base nazionale comune, con esami e percorsi formativi specifici per aree territoriali (regioni, province, siti UNESCO) o per aree tematiche (turismo enogastronomico, archeologico, religioso, naturalistico). Questo approccio permetterebbe una maggiore valorizzazione delle competenze locali.
  • Una guida turistica non può fermarsi alla formazione iniziale, occorre prevedere un sistema di aggiornamento obbligatorio, con crediti formativi da acquisire annualmente, su temi come nuove tecnologie, accessibilità, sostenibilità e nuove metodologie di storytelling turistico.
  • Per chi già opera nel settore in maniera non regolarizzata, sarebbe opportuno prevedere un percorso di “emersione” che valorizzi l’esperienza documentata, con esami dedicati o corsi di adeguamento. Questo eviterebbe di disperdere un patrimonio di competenze costruito sul campo.
  • Le associazioni di categoria, le regioni e i territori dovrebbero essere coinvolti fin dalle prime fasi della progettazione dei bandi e dei percorsi formativi. Questo garantirebbe una maggiore aderenza alle reali esigenze del mercato e ridurrebbe i conflitti istituzionali.

La sospensione cautelare del concorso nazionale per guide turistiche, al di là degli aspetti giuridici, rappresenta un’opportunità per ripensare una professione strategica per il turismo italiano. In un’epoca in cui i viaggiatori cercano esperienze autentiche, contenuti culturali approfonditi e relazioni significative con il territorio, il ruolo della guida turistica si fa sempre più centrale. Occorre dunque costruire un sistema di abilitazione che sia all’altezza di questa sfida: serio, inclusivo, meritocratico, territoriale e aggiornato, un sistema che riconosca le guide turistiche non solo come figure abilitate, ma come veri e propri custodi del patrimonio culturale. L’Italia ha un’occasione per dimostrare che non solo sa accogliere, ma anche formare e valorizzare chi racconta la sua storia.

Nel mondo dell’ospitalità, la concorrenza non dorme mai. Le esigenze dei viaggiatori evolvono rapidamente e la tecnologia corre a un ritmo serrato, tuttavia alcune strutture alberghiere soprattutto quelle di medie e piccole dimensioni, sembrano ignorare i segnali del cambiamento restando ancorate a modelli gestionali obsoleti. Il risultato è spesso una spirale discendente fatta di personale demotivato, servizi inadeguati, recensioni negative e, infine, calo drastico del fatturato.Il capitale umano è da sempre il cuore pulsante di ogni struttura ricettiva: un receptionist sorridente, un cameriere premuroso, un addetto alle pulizie efficiente possono trasformare un semplice soggiorno in un’esperienza memorabile che contribuisce alla fidelizzazione della Clientela e al miglioramento di livello del brand reputation, importante per incrementare i fatturati e permettere un’auspicata crescita.

Tuttavia, in molte realtà alberghiere si assiste a un progressivo disinvestimento sul personale con turni massacranti, stipendi bassi, formazione assente e totale mancanza di percorsi di crescita che portano a un ambiente lavorativo demotivante. Il personale non valorizzato non solo riduce la qualità del servizio ma tende ad adottare un atteggiamento passivo o addirittura ostile nei confronti della clientela e ciò si traduce in recensioni negative, perdita di reputazione e conseguente calo della domanda che favorisce impietosamente il passaparola digitale dove una serie di lamentele online compromettono la credibilità dell’albergo.

Uno dei mali endemici di molte strutture è la presenza di una leadership debole o assente dove spesso i titolari sono imprenditori di prima generazione, tecnicamente competenti ma privi di una visione moderna. Altri, invece, delegano la gestione a figure non adeguatamente formate o motivate ed in entrambi i casi, il risultato è un’azienda senza una direzione chiara. Un buon leader alberghiero sa ascoltare, motivare, soprattutto premiare i successi anche attraverso gratifiche morali oltre che economiche e correggere con empatia gli errori, sa investire in formazione, in tecnologie e in processi che semplifichino e migliorino il lavoro quotidiano e soventemente, dove manca questa guida tutto il sistema tende a degenerare.

Nel 2025, l’assenza di strumenti digitali efficaci non è più giustificabile! Le tecnologie di automazione, la domotica, i software di gestione (PMS), i channel manager, i CRM, le app per la comunicazione interna e le soluzioni per il check-in digitale sono oggi accessibili anche alle strutture di dimensioni ridotte ma molti albergatori vedono ancora l’innovazione come un costo piuttosto che come un investimento e questo approccio miopico impedisce loro di semplificare i processi, offrire un’esperienza utente fluida e raccogliere dati utili per personalizzare l’offerta.

Il mercato offre oggi numerose soluzioni per finanziare l’innovazione quali: leasing tecnologico, finanza agevolata, contributi a fondo perduto, bandi regionali ed europei spesso, però, le strutture alberghiere non approfittano di queste opportunità per semplice disinformazione o pigrizia gestionale. Invece di aggiornare l’infrastruttura tecnologica o di ristrutturare camere e spazi comuni, molti albergatori preferiscono adottare una logica attendista sperando in tempi migliori. Ma senza investimenti mirati, è difficile competere con le realtà più dinamiche, soprattutto in mercati turistici ipercompetitivi!

Il cliente di oggi è informato, digitale, esigente e poco propenso alla fidelizzazione automatica si aspetta servizi efficienti, comunicazione chiara, ambienti curati e, soprattutto, coerenza tra promessa e realtà e se le aspettative non vengono rispettate non solo sceglierà un’altra struttura per il prossimo soggiorno ma lo racconterà a centinaia di altri potenziali clienti. Chi non investe per stare al passo con queste aspettative è destinato a perdere fette sempre più consistenti di mercato e lo spauracchio dei competitor non sarà solo motivo per un raffronto ma una condizione che permetterà loro di capitalizzare l’insoddisfazione del Cliente, offrendo ciò che è mancato altrove.

Una struttura che non investe nel personale e nella tecnologia inizia lentamente a perdere appeal, la qualità del servizio cala, la reputazione online peggiora, i clienti diminuiscono con la conseguenza di produrre meno entrate e con una montagna da scalare sempre più difficile per migliorare attraverso azioni efficaci. Questo genera un circolo vizioso che spesso porta alla svendita della struttura, al cambio di gestione o, nei casi peggiori, alla chiusura definitiva!

In molte località turistiche italiane, è facile imbattersi in alberghi che fino a pochi anni fa erano fiorenti e oggi versano in condizioni critiche come ad esempio, in alcune località del litorale adriatico dove la maggior parte delle strutture che non hanno mai rinnovato gli ambienti o formato il personale oggi faticano a riempire le camere anche in alta stagione. Dall’altro lato, ci sono hotel che, pur con risorse modeste, hanno puntato tutto sull’accoglienza calorosa, sulla digitalizzazione intelligente e su collaborazioni con enti locali e influencer per valorizzare il territorio, il risultato? Camere piene, clienti soddisfatti e reputazione solida.Il settore alberghiero sta cambiando, non si tratta più solo di offrire un letto e una colazione, ma un’esperienza completa e chi non capisce questa evoluzione rischia di uscire dal mercato. Ma la buona notizia è che non è mai troppo tardi per cambiare rotta, serve coraggio, formazione, apertura mentale e voglia di mettersi in discussione, una visione chiara del futuro, supportata da strumenti concreti e da un team motivato, solo così si può invertire la rotta e tornare a crescere.

Il declino di molte strutture alberghiere non è frutto del destino o di congiunture sfortunate, ma spesso il risultato di scelte gestionali sbagliate o non fatte. Investire nel capitale umano, nella tecnologia e nell’innovazione non è un lusso, ma una necessità per sopravvivere e prosperare in un mercato sempre più competitivo dove la vera sfida è passare da una gestione reattiva a una gestione proattiva e chi saprà affrontarla con intelligenza e visione avrà davanti a sé un futuro ricco di opportunità

Negli ultimi dieci anni il settore del turismo ha assistito a una trasformazione significativa, alimentata in gran parte dalla diffusione massiccia delle piattaforme di affitti brevi come Airbnb, Vrbo o la sezione case vacanza di Booking. Queste modalità di ospitalità hanno ridisegnato le abitudini dei viaggiatori e moltiplicato le soluzioni abitative disponibili, offrendo una flessibilità prima impensabile, tuttavia, nonostante questa apparente rivoluzione, il soggiorno in albergo mantiene e continuerà a mantenere una posizione centrale e insostituibile all’interno dell’esperienza turistica. Le ragioni di questa resilienza sono molteplici e radicate tanto nella struttura del sistema alberghiero quanto nella percezione culturale e sociale del viaggio stesso.

La prima grande forza del modello alberghiero risiede nella sua standardizzazione: l’esperienza del cliente è strutturata, prevedibile e garantita in termini di sicurezza, qualità del servizio, pulizia, orari, disponibilità e assistenza e questa affidabilità è fondamentale soprattutto per alcune categorie di turisti come la clientela business, gli anziani, le famiglie con bambini e i viaggiatori internazionali che cercano stabilità e rassicurazione. A differenza degli affitti brevi, spesso imprevedibili e disomogenei, l’albergo rappresenta un punto fermo che risponde a bisogni concreti con un’organizzazione professionale come ad esempio la ricezione attiva 24 ore su 24, la presenza costante di personale formato, la possibilità di accedere a servizi accessori come ristoranti, centri benessere, aree coworking e assistenza logistica che rendono l’albergo un ecosistema completo, non una semplice sistemazione per dormire, condizione che gli affitti brevi, per loro natura, non riescono a garantire in fatto di continuità e profondità di esperienza. Ogni appartamento rappresenta un unicum gestito in maniera diversa, con standard soggettivi e raramente controllati da autorità pubbliche e la frammentazione del mercato degli affitti brevi si traduce spesso in problemi pratici: difficoltà di check-in, mancanza di assistenza in loco, igiene incerta, dispositivi di sicurezza assenti, ambiguità sulle responsabilità in caso di danni o emergenze. Inoltre, la dimensione normativa è tutt’altro che secondaria: il settore alberghiero opera da sempre entro regole ben definite, sottoponendosi a controlli igienico-sanitari, norme antincendio, licenze edilizie e tributi locali mentre alcuni affitti brevi, al contrario, sfuggono spesso a queste regolamentazioni, creando un’asimmetria dannosa che penalizza gli hotel sul piano fiscale ma, al contempo, rafforza la loro posizione agli occhi delle istituzioni e dei viaggiatori più attenti alla legalità e alla qualità dell’offerta.

Ma c’è anche una questione culturale profonda: l’albergo non è solo un luogo dove si dorme, ma un luogo dove si vive. Negli ultimi anni molte strutture si sono trasformate in veri e propri poli esperienziali, capaci di offrire eventi culturali, degustazioni, corsi, mostre, itinerari locali, attività benessere e momenti di socializzazione. In un contesto in cui il turismo è sempre più esperienziale e trasformativo, l’albergo si adatta, innova, diventa spazio culturale e comunitario, al contrario, gli affitti brevi sono spesso neutri, impersonali, privi di relazioni umane, ridotti a un codice d’accesso e a un regolamento stampato sul tavolo, manca completamente la dimensione del capitale umano, uno degli asset più preziosi dell’hotellerie. Direttori, concierge, receptionist, cuochi, camerieri: ogni persona che lavora in un hotel contribuisce a costruire l’esperienza dell’ospite, arricchendola con professionalità, calore umano, attenzione ai dettagli, condizione che gli affitti brevi non possono replicare perché privi di una presenza costante, di un servizio personalizzato, di un volto umano con cui confrontarsi. C’è poi una componente strategica da considerare: gli hotel sono capaci di specializzarsi, adattandosi ai diversi segmenti del mercato. Esistono hotel per famiglie, per sportivi, per amanti del benessere, per viaggiatori d’affari, per persone con disabilità, per cicloturisti, per chi cerca il lusso o per chi desidera una vacanza sostenibile e ogni struttura può tararsi su un preciso target, costruendo pacchetti, servizi, ambienti e contenuti coerenti mentre gli affitti brevi, per quanto flessibili, non riescono ad arrivare a questo livello di profilazione professionale a causa di una mancanza di una strategia commerciale integrata. Inoltre, gli hotel sono parte di una filiera che genera occupazione stabile e ricchezza sul territorio dove ogni struttura alberghiera crea lavoro per decine di persone direttamente e per centinaia indirettamente: lavanderie industriali, imprese di pulizie, fornitori di food & beverage, tecnici, manutentori, aziende digitali e di marketing, agenzie di viaggio, guide turistiche.

Un altro elemento critico è la gestione del territorio: in molte città europee, l’espansione incontrollata degli affitti brevi ha prodotto gravi problemi di vivibilità: aumento dei prezzi degli affitti a lungo termine, svuotamento dei centri storici, omologazione dell’offerta, turismo mordi e fuggi , gli hotel, al contrario, sono insediamenti stabili, spesso integrati in zone vocate all’ospitalità, capaci di dialogare con le istituzioni e le comunità locali. Prendiamo in esame la criticità dell’ultima pandemia: è stato evidente quanto il modello alberghiero sia stato più resiliente e adattabile, gli hotel hanno potuto implementare rapidamente protocolli sanitari, formare il personale, sanificare gli ambienti, riconvertirsi temporaneamente in strutture per l’accoglienza di personale sanitario o soggetti in quarantena.

Anche sul piano della fidelizzazione, il turismo alberghiero è molto più strutturato, le grandi catene internazionali e gli hotel indipendenti utilizzano strumenti di CRM, programmi fedeltà, campagne mirate per mantenere vivo il rapporto con i clienti, costruendo relazioni che si basano su fiducia, qualità e memoria emotiva. Un cliente soddisfatto torna nello stesso hotel, ne parla agli amici, lo trasforma in un riferimento.

In definitiva, pur riconoscendo i meriti degli affitti brevi nel democratizzare l’accesso al viaggio e nel portare innovazione, è chiaro che essi non possono sostituire il modello alberghiero, le due formule possono coesistere, ma su piani differenti. L’albergo resta l’unica infrastruttura in grado di garantire qualità costante, sicurezza, servizi, impatto sociale positivo, relazione umana, resilienza e sinergia territoriale è un modello che evolve, si adatta, ascolta i cambiamenti, ma non rinuncia alla propria vocazione: accogliere, prendersi cura, rendere il soggiorno del viaggiatore un’esperienza autentica e memorabile ed è proprio per questa sua anima profonda, fatta di persone, attenzioni e competenze, che nessuna piattaforma digitale potrà mai davvero sostituirlo.

Negli ultimi anni, il turismo ha riaffermato il suo ruolo strategico nell’economia italiana, registrando numeri da record e confermandosi come uno dei motori principali della crescita nazionale. I dati più recenti relativi al 2024 evidenziano un aumento complessivo delle presenze turistiche del +2,5% rispetto al 2023, con un risultato che assume una portata storica: l’Italia conquista il secondo posto in Europa per numero di presenze, superando la Francia e posizionandosi subito dietro la Spagna.

Il dato più rilevante riguarda la componente estera: sono infatti i turisti stranieri a trainare questa crescita, con un incremento costante di arrivi e pernottamenti lungo tutta la Penisola. Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Francia e paesi asiatici come la Cina e il Giappone hanno contribuito in maniera significativa, spinti da una crescente voglia di viaggiare e dalla rinnovata attrattività dell’Italia nel panorama internazionale. Le città d’arte come Roma, Firenze e Venezia rimangono capisaldi assoluti, ma a sorprendere è anche la crescita esponenziale del turismo nei borghi, nei territori rurali, nelle aree montane e lungo le coste meno conosciute. L’Italia dimostra di saper intercettare non solo la domanda tradizionale, ma anche quella più recente, legata a esperienze autentiche, sostenibili e personalizzate.

Ricordo che il turismo rappresenta oggi circa il 13% del PIL nazionale, considerando l’indotto diretto e indiretto, e offre lavoro a circa 4 milioni di persone, tra occupazione diretta e filiere collegate (ristorazione, trasporti, cultura, artigianato). Si tratta di un settore trasversale, che tocca molteplici ambiti produttivi e che ha dimostrato una resilienza straordinaria, anche di fronte a sfide epocali come la pandemia. Il suo contributo è stato essenziale per la ripresa economica post-Covid e continua ad essere un settore chiave per la crescita futura, grazie anche agli investimenti provenienti dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), che destina fondi consistenti alla digitalizzazione, alla sostenibilità e alla valorizzazione del patrimonio turistico-culturale.

Ma quali sono stai i fattori che hanno portato a questo boom recente?

  • Diversificazione dell’offerta: accanto alle mete tradizionali, si sono sviluppati nuovi segmenti come il turismo enogastronomico, quello naturalistico, sportivo, religioso e wellness.
  • Strategie di promozione mirate: si è assistito a un potenziamento delle campagne pubblicitarie all’estero puntando su mercati ad alta capacità di spesa.
  • Miglioramento della qualità dei servizi: molti operatori del settore hanno investito in strutture ricettive di alta gamma, innovazione tecnologica e formazione del personale. Purtroppo rimane una fetta dell’imprenditoria alberghiera che ostinatamente non reagisce a questa evoluzione che ha segnato un cambio di passo nella gestione dell’ospitalità.
  • Sostenibilità: l’Italia si è distinta anche per l’impegno nella promozione di modelli turistici più sostenibili, favorendo forme di turismo lento e responsabile.

Nonostante i successi, il settore turistico italiano deve affrontare alcune sfide importanti, prima tra tutte, la necessità di gestire i flussi turistici in modo equilibrato per evitare fenomeni di overtourism nelle aree più popolari e, al contempo, promuovere la crescita nelle zone meno conosciute, inoltre, la competitività internazionale richiede un continuo aggiornamento dell’offerta, sia in termini infrastrutturali sia nella capacità di intercettare nuove tendenze (come il turismo digitale, i viaggi esperienziali, il bleisure travel – “business travel” e “leisure” quale combinazione di viaggi per affari e svago).

A mio avviso le azioni da sostenere, sono:

  • La destagionalizzazione, per distribuire i flussi turistici durante tutto l’anno;
  • Il rafforzamento dell’offerta nelle aree interne, lontane dai grandi circuiti turistici tradizionali;
  • La formazione continua, per garantire standard qualitativi elevati in un mercato sempre più esigente e globalizzato;
  • La gestione intelligente dei flussi, soprattutto nelle città d’arte, dove la pressione turistica rischia di compromettere la qualità della vita dei residenti e l’integrità del patrimonio.

Un altro tema cruciale è quello della sostenibilità: il turismo del futuro sarà sempre più giudicato in base al suo impatto ambientale, sociale ed economico. L’Italia, forte del suo patrimonio unico, ha tutte le carte in regola per diventare un modello di sviluppo turistico responsabile. Il turismo italiano non è solo una questione di numeri: è un patrimonio vivente, una leva economica strategica e un simbolo della nostra identità culturale.

Il record delle presenze turistiche nel 2024 non rappresenta un traguardo finale, ma piuttosto un nuovo punto di partenza e per consolidare questo ruolo di leadership, l’Italia dovrà continuare a investire in qualità, innovazione, sostenibilità e promozione, valorizzando le proprie eccellenze e mantenendo viva quella capacità di incantare il mondo che da secoli ci contraddistingue.

Viviamo in un’epoca dove l’immagine spesso conta più della sostanza, dove il marketing ha imparato non solo a vendere prodotti, ma anche a costruire maschere. Tra le più insidiose c’è quella del “successo aziendale“, una narrazione confezionata con cura da molte imprese che, pur navigando in acque incerte o addirittura tempestose, scelgono di apparire solide e floride. Tale procedura, frequente soprattutto in sede di ostentazioni costruite ad hoc per “gettare fumo” negli occhi di aziende o clienti con il quale si sta avviando una collaborazione o una vendita, tenta di innalzare il brand reputation il più delle volte senza avere una concreta struttura che possa poi reggere l’operazione commerciale, evidenziando strategie aziendali gestite “alla giornata” che si trasformano in veri e propri “harakiri”

E uno degli strumenti più subdoli di questa illusione è la pubblicazione di offerte di lavoro. Scorrendo i portali dedicati, mi capita spesso di imbattermi in annunci entusiastici: ricerche di personale, posizioni aperte “urgentemente”, opportunità apparentemente concrete per giovani e professionisti. Le aziende si raccontano come realtà dinamiche, in crescita, con progetti ambiziosi e obiettivi globali ma a distanza di settimane, talvolta mesi, nessuna risposta arriva, nessun contatto, nessun rifiuto, nessuna voce dall’altra parte.

E allora nasce il dubbio: era davvero una ricerca attiva? Esisteva davvero quella posizione? O si trattava solo di un’operazione d’immagine?

Vi sono dunque aziende che pubblicano annunci fittizi per dare l’idea di essere in espansione, attrattive, competitive, in alcuni casi servono per ingannare investitori, fingendo una crescita inesistente in altri, si vogliono testare gratuitamente i trend del mercato del lavoro, raccogliere CV per “eventuali esigenze future” che non arriveranno mai. In tutti i casi, è una forma moderna di manipolazione.

Molti candidati si sentono ingannati perché dietro a ogni curriculum inviato c’è una persona, una speranza, un tempo dedicato. Quando nessuno risponde, non è solo una mancata opportunità: è un messaggio silenzioso che scivola tra le crepe dell’indifferenza, diventandone causa della sfiducia soprattutto giovanile, in un sistema lavorativo che somma alla frequente mancanza di un giudizio meritocratico, l’inganno verso una categoria emotivamente provata dai continui tentativi alla ricerca di un futuro. Queste pratiche non solo compromettono la fiducia tra aziende e lavoratori, ma generano un clima di sospetto e stanchezza e le aziende perdono una cosa fondamentale: la credibilità.

In un mondo dove tutto è comunicazione, la trasparenza dovrebbe essere l’unico vero vantaggio competitivo perché una reputazione si costruisce con i fatti, non con le apparenze. E oggi, più che mai, c’è bisogno di verità, non di vetrine. Forse è tempo che anche il mondo del lavoro impari a rispettare il tempo, la dignità e l’intelligenza delle persone. Perché dietro ogni “candidatura non vista” c’è una storia, e nessuna storia merita di essere ignorata.