Pochi giorni fa Icca (International congress & convention association) ha pubblicato i suoi dati annuali sul numero degli eventi organizzati nel 2016 per nazioni e città. Nulla di nuovo dal lato nazioni (l’Italia è sempre sesta, come accade da tanti anni), poche le novità dal lato città. Il primato è sempre una giocata a tre fra Parigi (prima), Vienna e Barcellona. Tre città splendide, tre simboli della vecchia intramontabile Europa e del mondo libero, meritatamente leader in quanto tali.

Però quest’anno c’è un dato che mi ha fatto riflettere e quasi rabbia: il ventesimo posto dell’unica italiana fra le top 20: Roma.
No, non è per il ventesimo posto in sé. Non è la prima volta che la nostra capitale chiude la classifica delle magnifiche venti.
E non è nemmeno per l’assenza di altre città italiane dalla top list.

Semplicemente, è perché questa classifica nulla dice dell’altra grande metropoli italiana, Milano, che secondo uno studio condotto per la Bit 2017 dal Laboratorio di analisi del mercato congressuale internazionale (Lamci) sviluppato dall’Alta scuola in Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Aseri), nel 2016 ha ospitato la bellezza di 40.595 eventi della durata di almeno quattro ore con un minimo di dieci persone ciascuno, per un totale di 3,13 milioni di partecipanti e 4,37 milioni di presenze.

Nello spazio censito da Icca (solo congressi associativi internazionali con oltre 50 partecipanti e che si svolgono a cadenza regolare in destinazioni diverse, secondo il principio della rotazione fra almeno tre diversi paesi) Roma supera Milano – non sappiamo di quante posizioni ma non importa – con 96 eventi.

96 eventi. Contro quasi 41mila.

La domanda che mi pongo, e che mi ha fatto, ripeto, persino rabbia, è la seguente: che senso ha, oggi, stabilire il primato di una città rispetto alle altre secondo un criterio ristrettissimo, anacronistico, capace di coinvolgere solo una minima parte – per ricca che sia – del business Mice?

Che senso ha, nel mondo dei budget risicati all’osso e della corsa permanente al risparmio e all’ottimizzazione, rifiutarsi di alzare lo sguardo e di abbracciare l’intera tipologia Mice, includendo gli eventi governativi e aziendali, gli incentive, i team building, i lanci di prodotto e quant’altro?

Che senso ha misurare l’appetibilità di una destinazione ostinandosi a non vedere che i criteri di selezione, da parte sia della domanda sia dell’offerta, sono cambiati e che il mercato sta, nel suo complesso, esprimendo tutt’altre grandezze e tutt’altri trend?

L’assenza di Dubai dalla top 20 delle città e degli Emirati dalla top 20 per nazioni dovrebbe esprimere chiaramente che cosa intendo per “criterio anacronistico”.

Si parla tanto di innovazione, di diversificazione, di cambiamento ecc. Io direi che prima di tutto, come sempre, dovremmo iniziare a cambiare l’approccio mentale alle cose. Le statistiche cambierebbero di conseguenza e, sempre di conseguenza, cambierebbe pure il business. In meglio.

Scommettiamo?

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