Credits: Gabriel Heusi/Heusi Action

Tre volte nella vita sono rimasto letteralmente a bocca aperta. La prima fu davanti al teleschermo, durante i Mondiali di Messico 1986, al secondo gol di Maradona contro l’Inghilterra nel quarto di finale della mano de Dios. La seconda alla terzultima pagina del romanzo di Robert Harris Conclave: un colpo di scena pietrificante che fa riflettere sul senso stesso della storia umana. La terza, e finora ultima, è stata intorno alle cinque del pomeriggio del primo febbraio scorso, quando, sgusciando da un viottolo di negozietti di fronte al Museu Històrico do Exército, mi sono ritrovato tutto d’un colpo davanti alla spiaggia di Copacabana.

Ero arrivato a Rio de Janeiro quel mattino, dopo un volo notturno da Malpensa e un breve scalo a Sao Paulo. L’escursione termica fra inverno boreale ed estate australe era di 35 gradi. Ma il ridotto jet lag – appena tre ore – e soprattutto il clima secco (Rio sta poco sopra il tropico del Capricorno) avevano contenuto al minimo il contraccolpo. Sicché mi ritrovai in piena forza per dedicare il mio debutto brasileiro alle grandi, bellissime spiagge della città, che da sole coprono una superficie di 100 chilometri quadri.

Per spiegarvi cosa ho provato dinnanzi a quella meraviglia pazzesca, esagerata, abbacinante, che solo per una convenzione dobbiamo chiamare spiaggia e che sarebbe invece più corretto definire paradiso in terra, in senso naturalistico e pure umano, crogiolo com’è di suoni, profumi e grandezze architettoniche, vi racconto la passerella di arenili che m’ero studiato di percorrere e che s’è rivelata la miglior anteprima – quasi una preparazione psicologica – al contatto con l’assoluto.

Alloggiavo al Grand Hyatt Rio de Janeiro, uno splendido cinque stelle a Barra da Tijuca, il quartiere olimpico della città, sorto per i Giochi 2016 e culminante in un immenso ocean drive (Avenida Lúcio Costa) che ricorda certe avenue della Florida. Siamo in America, non per nulla.

Fra i vari atout dell’hotel, che poi descriverò, c’è ovviamente una spiaggia privata che è stata la mia prima meta appena disfatto il bagaglio. Ebbene, qui ho capito subito che dovevo dimenticarmi il modello europeo di spiaggia. Niente a che spartire con quanto – per bello che sia – si trova da noi. A Rio le spiagge sono enormi insenature che ti abbracciano da un lato all’altro di golfi sterminati, offrendoti sabbia finissima, così fine che, non fosse per l’intenso colore giallo, quasi ricorderebbe il borotalco. L’occhio si perde, non solo per la quantità del materiale da vedere, ma anche per la sua eterogeneità: le curiose colline che si tuffano nella baia, i grattacieli e gli alti palazzi a far da scudo ovunque, un’incredibile mescolanza etnica a ricordarti che i confini e le barriere servono solo a dividere quanto per natura sarebbe unito.

Al centro dell’insenatura su cui poggia la metropoli si susseguono diverse altre spiagge. Quella di Leblon, quartiere fashion, ricco di vita notturna, è fra le mete preferite dei giovani e dei modaioli. Si distende parallela alla strada principale e defluisce senza soluzione di continuità in Ipanema, resa immortale da Vinicius de Moraes e Antonio Carlos Jobim con la garota (ragazza) descritta nel brano di bossa nova più celebre d’ogni tempo.

Il Brasile è zeppo di donne splendide, non è necessario andare a Ipanema per restarne storditi. La sensazione, però, è che qui la coisa mais linda / mais cheia de graça non sia ela menina, que vem e que passa / num doce balanço, a caminho do mar, quanto piuttosto il caminho do mar medesimo, l’interminabile passerella di onde sciabordanti, strusciare di havaiianas, partitelle di beach football, sonnacchiose bancarelle ammiccanti al mare. Un tripudio di vita che, non sono riuscito a capire per quale prodigio balistico, esplode sottovoce, senza frastuoni stucchevoli, senza estroversioni fuori luogo.

Che sia la vicinanza di Copacabana a suscitare il rispetto che si riserve al sacro? Non lo so, rimane che davanti a quell’insenatura m’è cascata la mascella e le sono occorsi parecchi minuti per tornare a posto.

La prima cosa che vedi arrivandoci da Ipanema è il Pan di Zucchero, la collina più celebre della terra, intinta nell’oceano come un’ostia nel vin santo. Poi i palazzi sullo sfondo, bianchi come le scogliere di Dover, ordinati come una truppa in schieramento d’onore. Quindi, sulla sinistra, case, hotel, uffici alti e dispiegati a semicerchio a far da contraltare al tranquillo oceano della baia. Nel mezzo, oltre il viale principale, una perfetta mezzaluna di sabbia congiunge il Pan di Zucchero al promontorio opposto.

Entrai in questo capolavoro di equilibrio naturale e urbano, mi sedetti sulla spiaggia e iniziai a pensare se esiste al mondo un posto migliore per un viaggio wow. Mi risposi che sì, è questione di opinioni, ma per come mi sentivo in quel momento no, un posto migliore non c’è.

Abbandoniamo dunque per un attimo le emozioni e tuffiamoci nei numeri. Secondo Icca Rio de Janeiro è al top delle destinazioni congressuali americane da otto anni. Ha 28mila camere con una previsione di crescita pari a 4mila in meno di un lustro. L’occupazione media è del 68%, una cifra altissima se rapportata a un’intera città (viepiù di queste dimensioni). Gli investimenti in riqualificazioni e nuove strutture sono all’ordine del giorno, sia per gli hotel di catena sia per quelli indipendenti. A Barra, dove alloggiavo, è un continuo scorrere di cinque stelle al top degli standard internazionali, con centri congressi favolosi e possibilità di ospitare eventi sino a 2200 partecipanti.

Per cui anche i numeri danno ragione ai sentimenti.

Il Grand Hyatt Rio de Janeiro è la sintesi e l’emblema dell’altissimo livello raggiunto da questa città nel leisure e nel Mice. 436 camere, comprese 43 suite, tra cui la lussuriosa Penthouse di oltre 300 mq con piscina e una suite Presidential. Disegnate da Yabu Pushelberg, come il resto dell’albergo, le camere riflettono il calore e il colore della città, anche grazie all’uso di pietre locali, hanno balconi privati sull’oceano o sull’incantevole laguna Marapendi, su cui si affaccia l’executive club all’ultimo piano con la sua reception per gli ospiti business o vip.

Tre ristoranti dal design elegantissimo – ma come avrete capito, l’albergo è tutto di design – offrono varie possibilità al palato: il Cantô Gastrô & Lounge, con cucina brasiliana classica e locale, il giapponese Shiso e il Tano Cucina Italiana (si chiama proprio così) a cura di Leandro Minelli. Ci sono poi la grande Atiaia Spa con nove stanze private (sei suite e tre doppie), e oltre 2mila metri quadri di spazi per eventi, tra cui due ballroom, nove sale meeting e aree outdoor mozzafiato come i 930 metri quadri di terrazza.

Poco lontano si erge Riocentro, il più grande centro congressi di Rio e, grazie al massiccio investimento della società gestionale (la francese GL Events, che ci ha messo circa 150 milioni di dollari), il più completo e progredito convention center del Paese. Di più: grazie alla vastissima superficie su cui si stende, pari a 92mila metri quadri, è il più grande centro congressi di tutte le Americhe!

Contiene un hotel cinque stelle – il Grand Mercure, gestito da Accor, con 306 camere, due ristoranti, una piscina, centro spa e fitness e 550 metri quadri di spazi business – e sei padiglioni, l’ultimo dei quali è stato teatro delle gare di pugilato durante le ultime olimpiadi, e oggi è utilizzato come anfiteatro con una capacità di 10mila persone.

Non ricordo un centro congressi con un più vasto ventaglio di impieghi. Il padiglione 1, per esempio, è un auditorium con uno studio televisivo affittato da Globosat per le sue sitcom, ed è usato anche da altre aziende e associazioni (Smart Fit e la Brazilian Volleyball Association). Né ho mai visto qualcosa di più grande e attrezzato per il Mice: un parcheggio da 7mila posti, un eliporto, un ristorante da 350 persone. E pensate: dei sei padiglioni, il più piccolo misura la bellezza di 9.400 metri quadri.

Rio de Janeiro è dunque molto più che una città: è un motore di vita, creativo, instancabile e generoso. A questo pensavo osservandola dall’alto del Corcovado, così sterminata e surreale da farmi dimenticare che alle mie spalle avevo una quisquilia come il Cristo redentore, una delle sette meraviglie del mondo.

Ho scattato questa foto, cui lascio l’onere di concludere un racconto – e un ricordo – che le parole svilirebbero.

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